Fondata da Giuseppina Pizzigoni nel 1927

LE SCUOLE ATTIVE E L’APPRENDIMENTO ATTRAVERSO L’ESPERIENZA

Convegno 20 novembre 2002 - Intervento della dott.ssa Franca Zuccoli

Il progetto, che è stato realizzato durante lo scorso anno scolastico, rientra in una visione didattica e pedagogica che supera la pertinenza esclusiva delle materie scientifiche e che pervade ogni ambito del sapere.

L’impronta di sperimentazione diretta, contatto ed esplorazione del mondo circostante, costruzione autonoma e consapevole delle conoscenze è una connotazione molto forte per ogni scuola e rimanda a precise scelte di campo.

E’ in questo senso che mi sembra illuminante un breve excursus per cogliere appieno la valenza positiva apportata dall’esperienza delle scuole attive ed in particolare della Rinnovata.

Con la denominazione scuola attiva, termine coniato in Svizzera ed esteso all’Europa, volevo richiamarmi ai molti metodi che, sorti in Europa nel XX secolo, rispondevano all’esigenza di una educazione non più esclusivamente teorica, ma legata maggiormente al fare, al rispetto dell’individualità dei singoli alunni e al potenziamento dell’attività autoformativa.

Il termine scuola attiva è da cogliersi, in questo intervento, come esigenza di svecchiamento e rinnovamento della scuola, adeguamento alla società ed attenzione  alle conquiste e conoscenze che la pedagogia e la psicologia di quegli anni andava sviluppando, al di là delle singole connotazioni di ogni pedagogista.

Infatti questo movimento non può dirsi sicuramente unitario, ma legato alle specificità delle nazioni in cui è sorto ed anche al momento storico come alla formazione del singolo pedagogista, si va da Edmondo Demolins ad Adolfo Ferrière, Edoardo Claparède, Ovidio Decroly, Emilio Durkheim, Luciano Laberthonnière, Eugenio Dévaud, Ruggero Cousinet, Celestino Freinet.

Mi piace ricordare tra i tanti Adolfo Ferrìére, ginevrino, che definendo la scuola attiva arrivava a parlarne come di un “laboratorio di pedagogia pratica”.

E’ in questo senso che il legame con la nostra scuola mi pare imporsi.

Quando si parla di Giuseppina Pizzigoni in ambito pedagogico si sottolinea la mancanza di “una propria sistematica teoria dell’educazione”[1], con un visibile senso di inferiorità rispetto agli altri pedagogisti.

In realtà, a mio parere, questa “inferiorità”, unita a doppio filo con un costante fare pratico, può essere interpretata come una ricchezza.

Nulla nel suo pensiero nasce da una elaborazione fatta a tavolino, lontana dai bambini. Tutto è fatto sperimentandolo nel concreto, vivendolo sulla propria pelle, scontrandosi con difficoltà di realizzazione. Il sapere non è disgiunto dal fare, non solo per i bambini, ma, anche, direttamente nella costruzione della scuola e nell’elaborazione della “teorizzazione nascosta” (così come viene chiamata la teoria pedagogica pizzigoniana).

In questo caso vorrei citare il pensiero di don Milani, mai come ora così attuale.

In Lettere a una professoressa i ragazzi scrivevano in questo modo parlando dei pedagogisti che venivano dall’università a visitare quella piccola scuola di campagna:

Un professorone disse:”Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…”. Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline.[2]

La stessa Pizzigoni aveva sperimentato il senso delle parole dei ragazzi della scuola di Barbiana quando diceva:

Ogni qualvolta un oratore facondo parlava  di materia scolastica in pubbliche conferenze io accorrevo, desiderosa di verità. Ahimè! Pensieri alti e profondi, trovate geniali, forma smagliante, ma sempre e soltanto parole![3]

Sicuramente Giuseppina Pizzigoni non faceva parte di quella schiera di pedagogisti teorici, perché lei i bambini li vedeva ogni giorno ed era così presa dai problemi e dall’organizzazione della scuola da “sporcasi le mani” nella realizzazione concreta, e per questo la mancanza di una teoria a priori può essere letta come un pregio piuttosto che un difetto.

Occorreva fare, pertanto: mettersi a operare; fissare delle “linee fondamentali” (neppure molte); determinare una metodologia operativa (meglio che un metodo, come pur è stato chiamato da lei); elaborare dei programmi razionali e fattibili, ben finalizzati e ben scanditi: conoscendo lo scolaro e ciascun scolaro.[4]

Per questo leggerei il suo pensiero pedagogico come un fare a diretto contatto con l’esperienza, un fare che può essere modificato e migliorato, come una specie di work in progress o lavoro in fieri.

I principi del suo pensiero sono stati già citati negli interventi precedenti, ma io li ricorderei solo con una frase che è illuminante e pregna di significato.

Scuola è il mondo, Maestro ogni fatto naturale ed ogni uomo. Non si insegni: si esperimenti”, ripeteva la Pizzigoni (e si esperimenti voleva dire porsi in relazione conoscitiva e operativa con la natura e con il mondo)[Linee fondamentali, 1922 e 1934). Il “metodo sperimentale” si poneva così, effettivamente, come metodo dell’esperienza personale, facendosi metodo pedagogico-didattico.[5]

Non si trattava di una mera registrazione dei fatti, ma di una osservazione ed in questo senso il pensiero pizzigoniano ci può e deve apparire di enorme attualità. Questa osservazione in cui il bambino si mette direttamente in gioco e misura le sue preconoscenze con quelle che il mondo circostante gli offre, questa co-costruzione della conoscenza in cui ognuno individualmente esprime il proprio pensiero e facendo esperienza lo deve misurare con il compagno e con il gruppo, confrontandolo, modificandolo, arricchendolo poiché entra a patti con la realtà e con essa e con il gruppo interagisce, proprio questo “percorso nel sapere” ci può confermare l’attualità del pensiero pizzigoniano.

Ed in questo senso il richiamo alla pedagogia di Dewey è d’obbligo, questo può essere il sottofondo, il collante del pensiero pizzigoniano:

Quando l’educazione è concepita in termini di esperienza, una considerazione deve dominare chiaramente tutte le altre. Tutto ciò che può essere chiamato materia di studio, aritmetica, storia, geografia, scienze naturali, deve essere tratto dal materiale che rientra nell’ambito dell’ordinaria esperienza quotidiana[6].

Ed ancora:

“L’educazione è un processo, da intendere come “ricostruzione e riorganizzazione dell’esperienza che accresce il significato dell’esperienza stessa ed aumenta l’abilità nel dirigere il corso dell’esperienza successiva.” (Dewey ritiene che sia da considerare il rapporto natura-esperienza secondo una circolarità, così che il sociale non può essere isolato dal naturale, o posto ad altro livello.”[7])

Infatti quando parliamo di apprendimento tramite l’esperienza, dobbiamo interrogarci su che tipo di esperienza vogliamo far vivere ai nostri bambini ed è sicuramente non un addestramento, ma un mezzo educativo e didattico, al di fuori di ogni preoccupazione utilitaristica, un’attività formativa al mondo e quindi alla partecipazione sociale.

Lo stesso Dewey, assertore dell’importanza dell’esperienza, aveva dovuto intervenire nel 1938 col suo volumetto Esperienza ed educazione per chiarire alcuni punti del suo pensiero che erano stati fraintesi, infatti aveva chiarito che non ogni esperienza è educativa, ma soltanto quella che contribuisce effettivamente alla “continuazione della crescenza”, individuarla spetta al maestro il compito di estrarre il “pieno significato” dell’esperienza presente come preparazione all’azione seguente. Partendo sempre dall’esperienza bisogna ordinarla e trattarla in modo da raggiungere come meta il sapere organizzato.

Quindi non tutte le esperienze senza discernimento, ma esperienze mirate ed organizzate.

In questo senso il percorso formativo e d’aggiornamento svolto lo scorso anno ha avuto una profonda valenza educativa:

1.    in prima battuta perché ha aperto le porte della scuola su un mondo agricolo ormai estremamente lontano dalla vita dei nostri ragazzi cittadini, permettendo innanzitutto una familiarizzazione e conoscenza “andando sul campo”, è stato una vera e propria immersione nel mondo della natura;

2.    in secondo luogo perché è stato ispirato da una metodologia legata all’imparare sperimentando e facendo direttamente;

3.    in terzo luogo perché ha permesso la produzione di materiali realizzati grazie all’unione delle diverse competenze professionali (agricoltori, allevatori, insegnanti) legati alla situazione concreta, strutturati a partire dall’esperienza direttamente vissuta, ma esportabili nell’orizzonte scolastico cittadino.

La scelta di non fermarsi alla “gita” di fine anno alla fattoria rientrava già nei progetti della nostra scuola, ogni uscita didattica è sempre stata il cardine di attività che da essa scaturiscono, al di là delle semplici rielaborazione, molto spesso noiose, si innestano percorsi che vanno dalla lingua alla matematica, dalla storia, all’educazione all’immagine ed alle stesse scienze, permettendo all’uscita di diventare lo sfondo integratore, il collante delle attività di quel periodo.

Questo aggiornamento si è inserito proprio in questo modo di lavorare, ed ha permesso un accrescimento delle competenze delle insegnanti, una maggior sensibilizzazione verso un mondo agricolo molto spesso colto in una visione naïve lontana dalla realtà, simile a certe sbiadite illustrazione degli antichi abbecedari.

La professionalità di questo mondo, la passione nello svolgere questi lavori, il contatto costante con la natura ed il rispetto che a lei si deve tributare, al di là delle logiche troppo stringenti di mercato, ci sono sembrati valori che la scuola deve inserire nei propri curricoli per dare la possibilità a tutti i bambini di sperimentare direttamente il rapporto con la natura e con la produzione agricola propria del nostro territorio.

In questo percorso il bambino è stato il centro e il punto focale di ogni progetto, e vorrei concludere con una frase di Piaget che permette una lettura trasversale del nostro metodo e dell’aggiornamento effettuato lo scorso anno:

Ogni volta che si spiega qualche cosa ad un bambino, gli si impedisce di scoprirla da solo. (Piaget)

O ancora, richiamandomi a Bruno Munari e ad un proverbio che giapponese sempre sottolineato nei suoi interventi

Se ascolto…dimentico
Se leggo… ricordo
Se faccio…imparo.


[1] Olga Rossi Cassottana, Giuseppina Pizzigoni.Oltre il metodo:la “teorizzazione nascosta”, La Scuola Editrice, Brescia, 1988, citazione tratta dalla prefazione di Giovanni Cattanei, p.5.
[2] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, libreria editrice fiorentina, Firenze, 1969, p.13.
[3] Giuseppina Pizzigoni, Linee fondamentali e programmi e altri scritti, La Scuola Editrice, Brescia, 1956, ( I ediz. 1931), p.18.
[4] Aldo Agazzi, Giuseppina Pizzigoni ieri e oggi,in Atti del convegno Giuseppina Pizzigoni e la “Rinnovata” di Milano nella prospettiva della nuova scuola elementare, Opera Pizzigoni, Milano, 1987, p.17
[5] Aldo Agazzi, id, p.28
[6] Giuseppe Flores d’Arcais ( a cura di ), Nuovo Dizionario di Pedagogia, p. 965
[7] Id., ibidem.

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